Siamo al secondo correttivo del CAD in poco più di un anno. Si cambia, con una certa frequenza una norma che, tuttavia, ancora rimane ignota ai più e lo stesso accade per le altre norme della PA digitale che, per qualche motivo, nel dibattito mainstream raramente meritano più di un articolo il giorno dell’approvazione (forse questo il motivo delle molteplici revisioni?).
Non parlo solo del cittadino comune ma, come ho scritto varie volte, è raro trovare persone che abbiano familiarità con il CAD nella quotidianità della Pubblica Amministrazione e anche tra i colleghi avvocati, al di fuori della cerchia degli specialisti delle materie più attinenti e del corredo minimo di CAD che un avvocato deve conoscere per poter utilizzare il processo telematico.
È bene dunque continuare a spiegarne qualche fondamentale (non trascurando comunque di evidenziare aspetti positivi ma anche meccanismi meno riusciti o di più complessa applicazione) senza trascurare le altre norme che governano i rapporti “digitali” tra cittadino e pubblica amministrazione.
In questa breve analisi per punti cercherò dunque di individuare quattro importanti gruppi di diritti del cittadino digitale, anche nelle sue emanazioni professionali e imprenditoriali nei confronti della PA e degli altri cittadini. Le tipologie di diritti evidenziati costituiscono dei veri e propri “fondamentali” delle recenti riforme e attraverso di essi se ne possono comprendere la portata, i pregi… ma anche i difetti e punti migliorabili.
Diritto alla trasparenza digitale dell’azione amministrativa
Una serie di disposizioni del CAD oltre alle norme del c.d. “FOIA” (Freedom of Information Act), il D.Lgs. 97/2016 prevedono una serie di diritti alla trasparenza dell’azione amministrativa. A questi si devono aggiungere le procedure già previste dalle vigenti disposizioni in materia di accesso agli atti della L. 241/90 sul procedimento amministrativo, le quali sono valide anche per il documento amministrativo telematico.
Il CAD prevede che le PA debbano rendere possibile l’accesso a dati, documenti e procedimenti e, in particolare, che dati e documenti di proprietà delle PA siano resi disponibili in formato aperto salvo che vi siano ragioni che giustificano un rilascio sotto licenza. Anche i capitolati e gli schemi dei contratti di appalto che comportano la gestione di dati pubblici devono prevederne l’accesso telematico.
I siti delle pubbliche amministrazioni, inoltre, devono prevedere una sezione “trasparenza, valutazione e merito” in cui pubblicare i dati in proprio possesso. I dati di una pubblica amministrazione, pur rimanendo nella sua titolarità, devono inoltre, per l’art. 50 del CAD, essere resi disponibili alle altre Pubbliche Amministrazioni e privati per il riutilizzo (fatti salvi i limiti alla conoscibilità da Leggi e Regolamenti) predisponendo i servizi informatici necessari.
Inoltre, secondo l’art. 3-bis del CAD, la esibizione di un documento informatico con firma digitale ricevuto al domicilio digitale dall’Amministrazione (o con copia raccomandata se non si possiede il domicilio digitale) contenente la copia di un documento conservato negli archivi della PA e che attesti che si tratta della copia di un originale conservato dalla PA, sostituisce a tutti gli effetti la produzione dell’originale, anche in giudizio.
Rimane comunque ferma la possibilità, per chi abbia interesse, di richiedere l’accesso agli atti e sono di recente emanazione due sentenze del TAR Lazio in cui è stato riconosciuto il diritto di accesso anche ad algoritmi software utilizzati dalla Pubblica Amministrazione nell’ambito della propria attività verso i cittadini (nella specie, gli algoritmi che sono stati utilizzati per le assegnazioni del personale scolastico).
Diverso è l’ambito operativo delle norme c.d. “FOIA”, le quali invece obbligano l’Amministrazione a produrre qualsiasi documento non sia escluso dalla medesima norma su istanza del cittadino anche se non è direttamente interessato da un procedimento che riguarda quel documento. Il primo gruppo di diritti “digitali” qui sintetizzato, in sostanza, mira a realizzare una piena trasparenza e condivisione di dati ed informazioni: il digitale, cioè, non deve rendere inaccessibili i processi e le informazioni di cui l’Amministrazione dispone ma avvicinarle e facilitarne il reperimento, riducendo così le asimmetrie informative.
È bene ricordare che il CAD prevede all’art. 43 un comma 1-bis per cui se un documento informatico è conservato per Legge da una Pubblica Amministrazione cessa l’obbligo di conservarlo da parte dei cittadini che ne possono, in ogni momento, richiedere accesso e/o esibizione; la medesima norma prevede che le Amministrazioni rendano (non “possano rendere”) disponibili a cittadini e imprese i documenti attraverso servizi on-line, previa identificazione con l’identità digitale.
Si vede così come questo gruppo di diritti dovrebbe tendere a convergere in un sistema in cui ogni documento amministrativo ha un identificativo univoco, una sorta di URL, che consente al cittadino di accedere allo stesso in autonomia senza richieste di sorta ma il cammino è ancora lungo.
Diritto al domicilio e all’identità digitale “pubblici”
È paradossale che tra i provvedimenti più controversi delle ultime riforme CAD vi siano domicilio ed identità digitale. Per quelli che non hanno familiarità con questi concetti: l’identità digitale è una credenziale unica, disponibile in tre diversi livelli di sicurezza, che consentirà (e in parte già consente) di accedere, identificandosi ed autenticandosi, a tutti i servizi della PA italiana, dei privati che vorranno adottare il sistema e, in prospettiva, delle PA dell’Unione Europea; il domicilio digitale è un indirizzo di posta elettronica certificata che potrà (e dovrà) essere dichiarato alla PA e che la PA dovrà utilizzare per tutte le comunicazioni e notifiche al cittadino, similmente a quel che già avviene per i soggetti dotati di obbligo di PEC (imprese e professionisti).
Si sente dire spesso che si tratta di modi per mettere i cittadini sotto osservazione. Su alcuni blog del settore automobilistico si leggono ad esempio proteste ed invocazioni alla “privacy” perché il domicilio digitale potrà essere utilizzato per inviare multe a un cittadino e ci si domanda chi dà il diritto allo Stato di inviare qualcosa ad una PEC o addirittura di reperirla senza il consenso del cittadino. Simili idee vogliono però negare la possibilità che vi sia interazione digitale con l’Amministrazione.
Non si può infatti pretendere la digitalizzazione dell’Amministrazione con comunicazioni stampate ed inviate all’indirizzo postale e accessibile solo previa esibizione del documento di identità a un incaricato. Una Amministrazione che “pensa” e “lavora” in digitale deve poter raggiungere gli amministrati su indirizzi elettronici ed identificare gli stessi in maniera altrettanto elettronica e questi compiti devono essere svolti da sistemi gestiti sotto l’egida dello Stato: non possono cioè essere delegati a soluzioni proprietarie di privati.
Sostenere che lo Stato non può o non deve gestire sistemi di identità digitale e domicilio digitale è come dire che sarebbe meglio usare la tessera fedeltà del supermarket come documento valido per l’espatrio. D’altra parte nessuno si stupisce che un sito internet su cui si naviga possa reperire in automatico una serie di dati attraverso il sistema di cookie e pochi ne analizzano le relative policy e ne rifiutano i relativi consensi. Altrettanto pochi leggono le privacy policy delle app che installano prima di accettarle.
Moltissimi si preoccupano invece di essere “identificati” dallo Stato all’accesso a un sito o un servizio tramite app della pubblica amministrazione, quasi che lo Stato potesse erogare servizi ad anonimi o utenti con e-mail di fantasia e che nemmeno dichiarano il nome. Il paradosso è appunto che nel digitale vi è ritrosia nel consegnare dati allo Stato, che comunque è vincolato a forti tutele dei medesimi, e, al contempo, noncuranza nel consegnarli a privati, anche non conosciuti.
Chi protesta perché lo Stato potrebbe (anzi potrà) conoscere la propria PEC si lamenta anche del fatto che il proprio indirizzo di casa è ricercabile in anagrafe da Pubbliche Amministrazioni e privati aventi specifiche qualifiche (es. da un avvocato)? Se il dato sull’indirizzo è inserito in elenchi pubblici (l’anagrafe) perché non dovrebbe esserlo l’indirizzo digitale?
Si dovrebbe invece vedere in positivo il fatto che si istituisce un sistema telematico che consente di ricevere comunicazioni (gradevoli e, certamente, anche meno) in maniera certa ma anche di reagire in tempo ad atti non dovuti, senza perdite di tempo per recuperare notifiche con lunghe file agli sportelli (per poi scoprire che non era nulla di importante) e senza perdite di tempo per inviare alla PA un eventuale ricorso, che si può già oggi spedire attraverso lo stesso canale.
Al contempo si dovrebbe vedere in positivo il fatto che con la SPID, l’identità digitale, si istituisce una credenziale unica che – a regime – elimina la necessità (e la barriera) di complesse registrazioni per accedere ad ogni servizio della PA; normalmente per iscriversi a un servizio della PA online occorreva (ed ancora occorre in molti casi) registrarsi sul sito, farsi poi identificare allo sportello ed, ancora, attendere via posta l’invio di una ulteriore credenziale… con il risultato che molti servizi, se pur teoricamente forniti, sono in realtà sottoutilizzati perché tra quando ci si rende conto di doverli usare ed il tempo che occorre per “registrarsi”… conviene andare di persona.
Inoltre, l’identità di matrice pubblica, mette al riparo da una privatizzazione dei servizi più importanti, dall’affidare la tutela dei nostri dati identificativi, in materia sanitaria o previdenziale o giudiziaria, a soggetti del tutto privati che gestiscono l’identità in maniera deregolata. Per questi motivi identità digitale e domicilio digitale “pubblici” sono due importantissimi pilastri delle riforme.
Istanze e dichiarazioni per via informatica/telematica
Come dicevo, il contraltare del diritto a ricevere comunicazioni al domicilio digitale, assolutamente indispensabile (e, ad avviso di chi scrive, anche da perfezionare e rafforzare ulteriormente) è il diritto ad inviare qualsiasi tipo di istanza alla PA per via telematica. Il diritto è sancito dall’art. 65 del CAD che ne prevede varie forme, l’inserimento in un sistema in cui ci si identifica tramite SPID, l’invio tramite PEC rilasciata previa identificazione e, da ultimo, l’invio per e-mail ordinaria accompagnata da copia documento.
Quest’ultima forma, nonostante le revisioni CAD, rimane indisturbata e questo non è logico vista la portata e tipologia delle riforme. Di fatto viene equiparata una mail ordinaria e copia di qualsiasi tipo di un documento di identità a una PEC e a una identificazione SPID. Questo ultimo sistema è certamente molto utile dal punto di vista pratico per il cittadino che non si è ancora dotato di SPID e PEC ma, proprio per questo, il cittadino potrebbe ritenere di poter fare a meno di SPID e PEC, così vanificando importanti pilastri della riforma.
È come se durante la transizione dalla tv analogica alla tv digitale si fosse previsto che per chi comprava il decoder non sarebbe stato più possibile vedere la tv con sistema analogico, mentre nulla cambiava per chi teneva il vecchio televisore: si sarebbero venduti ben pochi decoder e il passaggio non avrebbe avuto successo. Senza un vero switch-off delle istanze, verso i sistemi che sono stati approntati come pilastro dell’agenda digitale italiana, dunque, la riforma sembra destinata a funzionare a metà.
Pagamenti digitali
Molto importante (e spesso ignorato) è anche il diritto ai pagamenti digitali verso la Pubblica Amministrazione. Molti sono convinti che il pagamento digitale sia una facoltà che l’amministrazione può concedere all’utente, quasi una gentilezza in più, che non può essere pretesa e a volte ci si meraviglia quando si trova un ufficio che “accetta il Bancomat”. In realtà le norme del CAD sono molto chiare al riguardo.
L’art. 5 stabilisce che le PA (i soggetti per i quali è obbligatorio il CAD) sono tenuti ad accettare “a qualsiasi titolo” pagamenti elettronici tramite una apposita piattaforma (PagoPA), ivi inclusi i micro pagamenti e i sistemi di pagamento mediante credito telefonico. Dunque è lecito pretendere di pagare per via elettronica. Va detto che la norma non obbliga tutte le PA ad accettare tutti i sistemi di pagamento elettronico… sono infatti sufficienti quelli resi possibili attraverso la suddetta piattaforma e questo probabilmente ne costituisce il limite.
Si potrebbe tuttavia discutere se è comunque obbligatorio per le PA accettare le varie tipologie possibili di pagamento elettronico, ancorché non la totalità dei provider di pagamento esistenti: altro è pagare con carta di credito, altro invece è voler effettuare un micropagamento con credito telefonico. Riguardo quest’ultimo mezzo di pagamento, si nota come in Italia esso è stato letteralmente distrutto da un eccesso di normativa consumeristica a tutela da abusi nei servizi telefonici c.d. “premium”, a fronte dei quali molte schede SIM vengono vendute addirittura senza la possibilità di utilizzare il credito telefonico per servizi. Sarà importante re-legittimare il pagamento mediante credito telefonico come utile strumento per fruire dei servizi della P.A., anche perché l’alternativa normalmente passa per “App Store” e App gestite da soggetti esteri.
Altro problema riguarda i pagamenti con carta di credito verso la P.A. che, anche passando per la piattaforma “Pago PA” scontano a tutt’oggi commissioni troppo elevate. Si aggiunga che in caso di errore nell’impostazione del pagamento elettronico, spesso, si creano situazioni anomale per il recupero del pagamento, poiché le procedure di interazione con le tesorerie (o con l’Agenzia delle Entrate in caso il pagamento abbia natura fiscale) non sono ancora adeguate alla possibilità che il pagamento avvenga in elettronico.
C’è insomma margine di miglioramento per consentire una migliore e più convincente attuazione del diritto a pagare la P.A. in elettronico.
Fonte: Eugenio Prosperetti per Agendadigitale.eu